I data center sono le officine nascoste della vita digitale: macchine che macinano calcoli 24/7 e producono una quantità di calore che spesso dissipiamo. L’idea semplice (e potente) è recuperarlo e usarlo per scaldare case, scuole e palestre di quartiere. In Europa è già realtà e in Italia i primi progetti stanno atterrando nella versione urbana del “non si butta via niente”.

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Case scaldate dai dati

I data center sono le officine nascoste della vita digitale: macchine che macinano calcoli 24/7 e producono una quantità di calore che spesso dissipiamo. L’idea semplice (e potente) è recuperarlo e usarlo per scaldare case, scuole e palestre di quartiere. In Europa è già realtà e in Italia i primi progetti stanno atterrando nella versione urbana del “non si butta via niente”. 

Qual è il processo? I server devono essere raffreddati: l’acqua che assorbe il calore esce tiepida, passa in uno scambiatore e cede energia a una rete di teleriscaldamento o a un circuito locale dell’edificio. Fine. Servono progettazione pulita, accordi chiari con la utility e governance trasparente. Per chi abita, la differenza si vede in bolletta e nel comfort. 

Perché interessa al real estate? Perché cambia la mappa delle opportunità. La vicinanza a una rete termica diventa un plus come una fermata del tram o un parco. Un immobile che ospita un piccolo hub digitale può regalare calore all’intero condominio, ridurre i costi delle parti comuni, migliorare la classe energetica e raccontare una sostenibilità concreta. Nei mixed-use il racconto è ancora più forte: uffici tech che scaldano residenze, palestra e piscina dello stesso isolato. 

Da dove ha più senso partire? Dai quartieri già serviti da teleriscaldamento perchè si accorciano tempi e si semplificano i conti, dalle rigenerazioni di aree produttive perchè c’è spazio per data room efficienti e reti interne che condividono il calore tra edifici, dai campus universitari e parchi tecnologici perché domanda termica prevedibile, governance unica, voglia di sperimentare. 

Cosa tenere d’occhio?  

L’accettabilità sociale: nessuno vuole “cattedrali dei server” fuori scala, per questo servono design discreto, schermature verdi e dialogo con il quartiere.  

La continuità del servizio: il calore deve essere affidabile, quindi buffer e sistemi ibridi che coprano i picchi.  

La trasparenza dei numeri: promesse sobrie, KPI essenziali (quanto recupero, quanta CO₂ evito, quanto risparmio per famiglia).  

È questo che convince un condominio, non gli slogan. 

Effetti collaterali positivi sono molti. Il calore di prossimità può alimentare piscine, serre urbane, laboratori artigiani energivori, può diventare leva educativa per scuole e università, può creare nuovi lavori locali, dalla manutenzione degli scambiatori al monitoraggio digitale dei flussi. È economia della cura applicata all’energia. 

Il cambio di passo è culturale: smettere di vedere i data center solo come mangiatori di energia e considerarli invece come motori al servizio della città. Colleghi digitale e comfort quotidiano, la tecnologia smette di essere un’astrazione e diventa un pezzo di vita: apri il termosifone e, senza pensarci, usi calore nato da un algoritmo.  

La check-list per chi investe è concreta: mappare le reti, dialogare con le utility, misurare domanda/offerta termica, definire una governance chiara e comunicare con i residenti senza trionfalismi. Fatto questo, è un’innovazione che non fa rumore ma cambia l’aria – e la temperatura – del quartiere. 

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